I PRODROMI DELLE "RADIOSE GIORNATE"                          


CINICA STRATEGIA RESISTENZIALE
Francesco Fatica
 
 
L’ultimo libro di Pansa, un giornalista di sinistra che comincia ad ammettere qualche verità "scomoda", ha scatenato discussioni da parte dei detentori del "verbo unico". Non intendo far pubblicità a questo libro, ma non posso tacere di fronte a tante affermazioni smaccatamente false, in disperata, pervicace difesa della persistente, antistorica vulgata resistenziale
Si afferma insolentemente che le vendette e le atrocità seguite dopo il 25 aprile; sarebbero state giustificate dalle atrocità commesse nella guerra civile, sottintendendo ancora, manicheisticamente, che queste atrocità sarebbero venute sempre da parte fascista, ovviamente dal maniacale, arrogante punto di vista degli storici in carriera antifascista.
Sono affermazioni aprioristiche, contrabbandate beceramente approfittando dell’ignoranza della massa, a cui per sessant’anni è stata nascosta la verità sugli orrori e sulle responsabilità della cosiddetta "radiosa primavera" seguita al 25 aprile. Ancora adesso, troppi fra storici, giornalisti e politici non riescono a digerire la verità.. Eppure sono "titolari a circuito chiuso" delle leve di comando dei media, con questi ineffabili propagandisti non disdegna arruolarsi di tanto in tanto anche il nostro amato presidente, 
A costoro dunque dobbiamo ricordare quanto pur arrogantemente, ma onestamente, ammise già dal 1966 lo storico antifascista e partigiano Giorgio Bocca:« Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. E’ una pedagogia impietosa, una lezione feroce ».Proprio così, letteralmente così! Ferocemente così! Ma è la pura verità.
La stessa feroce strategia fu continuata sistematicamente e cinicamente, con sadica efferatezza, anche e soprattutto dopo la resa delle forze fasciste. Infatti la teoria della guerra partigiana « incarna l’ostilità assoluta, perde la distinzione tra nemico e criminale[…..] cessa non con la pace negoziata , ma con lo sterminio[…..] si svolge in base al terrorismo».
E queste non sono cose che non sappiano lorsignori. Ciononostante ci si ostina apoditticamente a dire che fu colpa del sangue scorso in Repubblica Sociale, e si finge di dimenticare che la guerra civile fu scientificamente preparata nonché accanitamente provocata dagli antifascisti e dagli "Alleati", che aizzarono italiani contro italiani, costretti in un regime di terrorismo che non era fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo, come ci ha spiegato Bocca, Era autolesionismo premeditato: cercava le ferite, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. 
Erano perfettamente inquadrati in questo feroce disegno i mercenari antifascisti che da "Radio Bari" prima, e poi anche da "Radio Napoli", velenosamente incitavano a scavare il fosso dell’odio, ma non erano meno accaniti quelli di "Radio Londra ": tutti esortavano ad uccidere alle spalle, a fare attentati con molte vittime, a provocare rappresaglie. Quanto più sanguinose possibile. Venivano diramati criminalmente elenchi di fascisti da uccidere, precisando di ognuno abitudini e orari. Ogni trasmissione grondava sangue fraterno.
L’otto settembre il gen. Carboni, raggirato dai comunisti, o forse no, aveva mollato cinquecento moschetti, ventimila bombe a mano, settemila pistole e un ingente quantitativo di munizioni.
I GAP cominciarono quindi ad assassinare singoli fascisti o militari isolati con la tecnica dell’agguato. Il 24 ottobre 1943 fu ucciso a Torino il seniore della Milizia Domenico Giardina. Il 31 a Brescia un ordigno esplose contro una caserma facendo due vittime e molti feriti. Il 5 novembre ad Imola fu assassinato a tradimento il seniore della Milizia Fernando Baroni; il giorno seguente nei pressi di Bologna vennero massacrati due fascisti e due carabinieri; ancora, dopo un solo giorno, il 7 novembre, a S. Gaudenzio (FI) fu teso un agguato a quattro fascisti, tutti freddati alle spalle; altri ne vennero trucidati a Roma, e ancora sei in Toscana.
E ancora tanti altri, sempre a tradimento, a Como, a Follonica, a Varese, a Desio, a Vercelli, a Sarzana, a Venezia… E si potrebbe continuare con un interminabile, luttuoso elenco, che comunque risulterebbe incompleto.
Non fu facile tenere a freno gli impulsi di reazione, ma a tante uccisioni non seguì rappresaglia alcuna. Gli ordini di Mussolini erano stati categorici, inderogabili: niente rappresaglie; niente guerra civile.
Tuttavia, mentre si svolgeva a Verona il Congresso del Pfr, il 13 novembre venne ucciso il maggiore Igino Ghisellini, pluridecorato, commissario della federazione di Ferrara, il quale aveva stretto un accordo con i capi antifascisti della zona allo scopo di impedire spargimento di sangue tra italiani. Questo intelligente e lungimirante accordo ostacolava concretamente i piani dei comunisti che, ovviamente, non avevano accettato e persistettero invece protervamente nel provocare la rappresaglia.
La luttuosa notizia fece scioccare i fascisti lì riuniti a congresso, dimenticando ad un tratto i più saldi propositi di non fare il gioco dei comunisti. I più sconvolti al grido concitato:« A Ferrara, a Ferrara!», corsero agli automezzi. A Ferrara ne arrivarono a centinaia anche da tutta l’Emilia.
I rossi avevano vinto la loro strategia impietosa. Furono fucilati undici antifascisti e per giunta non comunisti. Come da copione.
Si continuò dunque nelle provocazioni più sanguinose: una turpe, cinica istigazione, una lunga, sconvolgente teoria di feroci, provocatori fatti di sangue; furono presi di mira fascisti di ogni grado ed estrazione finché non fu possibile organizzare e mettere in atto il 18 dicembre l’agguato contro il federale di Milano Aldo Resega. Intelligentissimo, pacato, si era votato alla pacificazione; anche per questo fu preso di mira dai Gap, che provocarono così la fucilazione di otto antifascisti detenuti a S. Vittore.
Ai funerali partecipò una folla immensa, nonostante le minacce dei gappisti, che spararono poi effettivamente contro la moltitudine in corteo, guadagnandosi però l’esecrazione di tutti.
Gli "Alleati" incitavano al massacro; sostenevano la guerra civile anche con un profluvio di mezzi materiali e finanziari e con l’invio di inesorabili "consiglieri", che stimolavano caparbiamente la ferocia dei partigiani.
Vincenzo Caputo, nel suo incisivo "Ferrara 1945 – I giorni dell’odio",( Settimo Sigillo, Roma, 2002, p.63), afferma che l’autorevole senatore comunista e poi ministro Concetto Marchesi, aveva preannunciato cinicamente ad un rappresentante di casa Savoia queste stragi:« quattrocentomila teste dovranno cadere in Italia».
Dunque era tutto preordinato ed organizzato; altro che reazione spontanea; invece avvenne per fortuna che qualcosa nella mattanza non funzionò secondo le previsioni. E le Vittime, seviziate orrendamente e martirizzate furono molte di meno, pur comprendendovi, preti, suore, imprenditori agrari, ragazze che non si erano lasciate corteggiare e nemici personali per fatti privati, e pure rapine. Ma è innegabile che una certa organizzazione ci fu. Si erano preparate per tempo le liste dei fascisti da "eliminare"; si erano costituite squadre armate - autonominatesi "polizia partigiana", che operavano fuori della loro provincia per non essere facilmente riconosciuti e si autofinanziavano esigendo pesanti taglie da benestanti terrorizzati. Si voleva intenzionalmente spargere il terrore più assoluto per farne scaturire l’asservimento totale del popolo al nuovo verbo.
Pertanto, dopo il 25 aprile, quando oltretutto non c’era più da rischiare, furono perpetrate le nefandezze più feroci, secondo un programma ed una coordinata strategia finalizzata callidamente alla presa del potere assoluto.
Così martirizzarono i giovanissimi sottotenenti Gino Lorenzi e Walter Tavani, crocifissi a Mignagola di Carbonera (TV) e a Cavazze (MO), e così martirizzarono i tanti altri crocifissi in Romagna. 
In Liguria invece, spinsero la ferocia fino a gettare fascisti ancora vivi nei forni del pane - ma non avvenne soltanto in Liguria - o in enormi caldaie di acqua bollente, forse ispirandosi ai più feroci episodi della rivoluzione bolscevica o agli orrendi supplizi delle persecuzioni ai martiri cristiani. E non mancarono i roghi, come avvenne, pure eccezionalmente fuori dell’area più interessata dalle stragi, a Francavilla Fontana (Brindisi), dove l’otto maggio del 1945 vennero gettati, ancora vivi sul rogo preparato nella piazza principale del paese i due fratelli Chionna, dopo esser stati seviziati, da una piccola folla di facinorosi, soltanto perché colpevoli di conservare una intemerata fede fascista, 
Era la conseguenza naturale dell’odio sparso protervamente nei lunghi mesi della guerra civile, negli agguati alle spalle, negli atroci scempi, sempre assolutamente ingiustificabili, neanche col metro feroce degli stessi assassini, come avvenne a Trausella (TO), dove la levatrice di quel comune fu prelevata vigliaccamente mentre si recava ad assistere una partoriente, trascinata presso il comando di una formazione partigiana, fu violentata da un numero imprecisato di "eroi" convinti di "combattere per la libertà", che poi la trucidarono atrocemente tra maniacali tormenti, avendole tamponato i genitali con ovatta impregnata di benzina, a cui appiccarono il fuoco, rinnovando l’orrenda combustione infierendo con altri tamponi infiammati fino al sopraggiungere, purtroppo stentato, della liberazione con la morte.
In provincia di Ferrara - ma avvenne anche in tante altre zone del Nord - dopo la "liberazione", si è tollerato che pochi barbari boia spargessero il terrore; erano sanguinari torturatori, invasi dalla frenesia di voler dare alle proprie Vittime le più atroci sofferenze, spezzavano le ossa, la spina dorsale per piegare la Vittima in due all’indietro, la decapitavano con coltellacci da macellaio, per giocare poi macabramente a pallone con la testa. Si infieriva con un pugno di ferro, si massacravano di botte i morituri, si marchiava a fuoco il pene, si segavano le mani con una sega da falegname, si è arrivati a segare addirittura il corpo di una vittima ancora in vita in due metà, che furono poi gettate nel fiume Panaro. La famigerata banda di Portoverrara nel maggio 1945 assassinò tre uomini dopo averli evirati, aver loro strappate le unghie, i denti e spezzata la spina dorsale; un branco di megere linciò un uomo a Quartesana strappandogli gli occhi con le dita adunche. Ma bisogna riconoscere obiettivamente che la banda di Portoverrara non era neanche una delle più feroci.
A Medolla (MO) il grande invalido di guerra Weiner Marchi, costretto in una carrozzella, il 29 aprile, venne seviziato vigliaccamente e poi, ferito e sanguinante, fu gettato, ancora vivo, in pasto alle scrofe affamate in un recinto; ma furono più feroci gli uomini delle bestie che lo straziarono per cibarsene.
A Modena il 27 aprile Rosalia Bertacchi Paltrinieri, segretaria del Fascio femminile e la fascista Jolanda Pignati furono violentate di fronte ai rispettivi mariti e figli, quindi trascinate vicino al cimitero, furono sepolte vive. 
Le Ausiliarie, le mogli e le figlie, le sorelle e in qualche caso perfino le nonne dei fascisti, furono prese di mira da bande di vigliacchi con uno straccio rosso al collo, sottoposte al rito barbaro della tosatura dei capelli e seviziate, sempre in maniera atroce, prima di essere assassinate. Dice Pansa, avvenne anche per una bambina di tredici anni, ma sappiamo che non fu l’unica.
Avveniva anche per mano dei graniciari, i feroci partigiani di Tito; anche loro seppellivano vive le Vittime; anche loro tagliavano la testa per giocarci a pallone; anche loro avevano la regola feroce di far sparire i corpi delle Vittime, con i volti sfigurati per non farle riconoscere. Per imporsi col terrore. E non soltanto col terrore che veniva dai massacri, ma anche col terrore e con l’ansia e la disperazione dei familiari che hanno vagato per anni e anni alla ricerca delle Spoglie dei loro cari, incontrando sempre un muro omertoso di terrore, un ostinato e sbigottito silenzio, che ancora dura nei pochi sopravvissuti che sanno e non osano parlare.
Avvenne per i titini, ma avvenne anche per i partigiani sedicenti sacrilegamente, "garibaldini", a conferma di un'unica strategia, un unico disegno, complottati a Mosca. 
C’è ancora oggi chi si appella al fatto che ogni guerra civile porta con sé una macabra appendice di uccisioni; citano la guerra civile di Spagna con oltre duecentomila uccisioni (dicono) dopo la conclusione, e si aggiunge pure che anche in Francia, dopo la fine del governo di Vichy, le uccisioni postume furono più numerose che in Italia. Ma se anche ciò fosse vero, non giustificherebbe nulla, perché l’errore degli altri non può giustificare le nostre stragi, che restano tali e sono ancora non calcolate ed incommensurabili, e comunque non possono essere giustificate, ancor meno perché furono preordinate ed accuratamente organizzate dai capi del Pci e del Psi. Tuttavia gli altri partiti lasciarono fare corresponsabilmente, aiutando perfino sotto, sotto, con le frange faziose di tanti "utili idioti". E gli "Alleati"? Tollerarono, ben lieti di lasciar fare "il lavoro sporco" ai partigiani, tuttavia, paradossalmente, agenti lungimiranti dei servizi segreti "alleati" salvarono alcuni elementi che potevano essere utili nella lotta contro i comunisti, che si profilava imminente e quindi si apprestavano ad usare i fascisti, persone sicure e decise, con un ben definito dna anticomunista, di cui si poteva aver fiducia, prediligendo ovviamente quelli meno ideologizzati, considerati più malleabili. Gli altri furono abbandonati ai carnefici, ottenendo così anche l’effetto di far aumentare l’avversione anticomunista.
Dunque avvennero dei salvataggi; James Angleton, a capo dell’OSS (il servizio segreto americano, poi trasformatosi nella CIA) - come riporta anche De Felice nel suo "Rosso e Nero" - andò a prelevare Valerio Borghese a Milano il 9 maggio 1945, sottraendolo così alla "giustizia" partigiana.
Voglio anche ricordare che i servizi segreti americani avevano, già prima di allora, riservato speciale attenzione agli organismi clandestini fascisti, che operarono al Sud, ed ai capi in particolare, oltre che per ragioni contingenti, facilmente comprensibili, anche e soprattutto per conoscere e classificare, previdentemente, uomini adatti a costituire un argine al comunismo, alcuni dei quali vennero poi puntualmente arruolati nella struttura paramilitare anticomunista denominata "Gladio" (evidentemente proprio dal gladio portato sulle mostrine dai combattenti della RSI ). A conferma cito tra i tanti nomi della "Gladio", quelli degli agenti speciali Cucchiara, Mario Rossi, Lo Cascio, ma anche molti altri, tutti reduci del bgt."Vega" della X Mas.
E sappiamo ancora che Giorgio Pisanò fu salvato, dopo il 25 aprile ’45, dalla ferocia sanguinaria dei partigiani, proprio da un ufficiale dell’OSS, che lo interrogò a lungo, in più riprese, per conoscere i suoi principi morali e le sue motivazioni ideologiche, il suo ammirevole, adamantino carattere, analogamente a quanto avvenne agli agenti speciali NP della X Mas Nino Ceccacci e Aldo Bertucci. Sottratti anche loro, come molti altri, alla "giustizia" partigiana. 
Gli americani non si fidavano troppo dei loro amici "cobelligeranti": chi aveva tradito una volta avrebbe potuto tradire ancora.
Ma al giorno d’oggi, dopo l’implosione del sistema comunista, non serve più la lotta anticomunista perché gli ebrei americani - che pure, con apparente paradosso, avevano favorito e diretto la rivoluzione russa, ma soltanto per distruggere dall’interno un impero potenzialmente rivale, che aveva troppe ricchezze , sia pure ancora da sfruttare - sono ormai insediati saldamente alla guida e allo sfruttamento del mondo intero; anche l’Europa è stata messa in ginocchio dalla seconda guerra mondiale, ultimo atto di uno stesso disegno di guerre civili europee, iniziato con la prima guerra mondiale.
Ora stanno bene attenti a schiacciare gli arabi possessori del petrolio prima che le fonti energetiche americane, troppo sfruttate, stiano per finire. 
In definitiva dunque i partigiani, i mercenari del XX secolo, che hanno commesso tanti truculenti attentati e stragi, che hanno provocato fiumi agghiaccianti di sangue, hanno ottenuto in concreto - nell’illusione della cosiddetta "liberazione", invece del sospirato "sol dell’avvenire" - unicamente un rafforzamento dell’arrogante leadership mondiale americana ed il servaggio degli europei e degli altri popoli.
Mi pare ormai ben chiaro ed evidente. Ma c’è ancora chi non vuol capire. 
Chi capisce bene che "non deve capire".
 
 
NUOVO FRONTE N.232 Novembre 2003 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI) 

CARO DIRETTORE, LE RACCONTO COME NEL ‘44 UCCISERO MIO PADRE
Laura Menon
Trascritto dal cyberamanuense Marco Allasia
 
 
Caro Direttore,
mi perdoni se mi permetto di disturbarla con questa mia. Forse è la mia età (80 anni) che mi spinge a non temere di essere cestinata e decurtata in qualche parte; ma mi auguro le interessi la gravità dell’argomento che desidero cominciare e che in tanto tempo non è mai stato ben chiarito. Si tratta di un fatto accaduto il 7 agosto 1944 che ha sconvolto la nostra vita. È accaduto qui, nel nostro Comune, Roncade, (a Ca’ Tron) dove mio Padre Guglielmo Menon (nella foto) - proprietario e dirigente delle officine Menon con 350 operai, il fratello Carlo della stessa amm/ne, il rag. Dino Speranzon ottima persona, dipendente della Cassa di Risparmio, sono stati attirati in una imboscata e crudelmente uccisi. Si fecero molte congetture sull’accaduto; mi scrisse anche il politico on. Serena e si disse: "perché non volevano sovvenzionare i partigiani".
Invece la realtà è stata un’altra: la raccontò lo zio Carlo sul letto di morte alla presenza del fratello Luigi, del nipote Giuseppe Pasin. Inoltre erano presenti il dott. Italo Fantin, e il Prof. Battaglini.
Ed ecco il fatto: la sera del 6 agosto 1944 (di domenica) il rag. Dino Speranzon - allora segretario Politico - ricevette un biglietto da parte del Sig. Zarattini agente direttore della tenuta di Ca’ Tron. Il sig. Virgilio Zarattini che custodiva i magazzini di grano della tenuta, si rivolgeva al rag. Speranzon, in qualità di Segretario Politico, dicendo che si trovava bloccato in casa da due persone sconosciute che volevano da lui un certo quantitativo di grano per sovvenzionare un gruppo di partigiani. In quel tempo, si sa, i magazzini di alimentari erano "sigillati" e ogni quantitativo era seguito e richiesto con documenti per assegnarlo ai mulini dei vari paesi. Il rag. Speranzon si mise subito in contatto con mio Padre che aveva l’automobile) ed era grande amico di Zarattini per poter subito soccorrerlo e risolvere il caso. Anche perché - scriveva Zarattini - era preoccupato per la moglie e i bambini con quei due personaggi armati in casa. Il mattino seguente - per tempo - il rag. Speranzon, mio zio Carlo e mio Padre partirono alla volta di Ca’ Tron convinti di compiere un’opera buona: dare il permesso per il quantitativo da consegnare, patteggiando nel contempo la libertà della famigliola. - Così ci dissero prima di partire: nessuno sospettava un inganno e un tranello. Giunti alla casa dello Zarattini trovarono la moglie impaurita, mentre il marito era andato al centro agricolo. Perciò il gruppetto risalì in macchina, con i due sconosciuti al seguito. Quindi in centro della grande aia cercarono l’agente per concedere i permessi, ma non lo trovarono. Non sapendo cosa fare, dovettero ascoltare i due sconosciuti che li convinsero a proseguire in macchina verso il Bagaggiolo (di Musestre) dove avrebbero potuto trattare direttamente con i capi del comando che era attendato in mezzo alla campagna.
Risaliti dunque in macchina con ai lati i due armati, si avviarono verso la campagna.
Ma, non appena lasciato il paese, i due "tipi" ordinarono al gruppetto di scendere dalla vettura.
I nostri scesero, si guardarono intorno e non vedendo segno di alcun attendamento, chiesero dove fosse il Comando. La risposta venne subito: "in seguito alla morte di nostri partigiani uccisi a causa di una bomba scoppiata a Ca’ Giustinian in cui sono morti alcuni tedeschi e fascisti, per rappresaglia abbiamo preso voi" e immediatamente una raffica abbattè mio padre e il rag. Dino - lo zio Carlo in una frazione di secondo fuggì verso la macchina che stava a pochi passi. Riuscì a salire e scappare, ma il killer che aveva l’arma gli mandò dietro una raffica di colpi e purtroppo uno raggiunse mio zio alla schiena e lo ferì molto gravemente.
Ciò nonostante lo zio raggiunse Roncade e fermò la vettura mezza distrutta davanti all’ambulatorio dove il dott. Nicolò Zacchi lo raccolse e constatò la gravità della ferita.
Informati immediatamente i familiari: il fratello Luigi e il nipote Giuseppe Pasin fu trasportato immediatamente in ospedale a Casier dove venne subito operato.
Circondato dalle cure dei familiari e dal dott. Italo Fantin e Prof. Battaglini egli riuscì a raccontare quanto era accaduto, ciò che io ora ho trascritto.
Intanto a Ca’ Tron il Parroco e alcune buone persone soccorrevano i poveri morti e li trasportarono in chiesa, dove i miei familiari li prelevarono.
La notizia del gravissimo fatto si sparse ovunque. Era lunedì, giorno di mercato: in brevissimo tempo il paese si svuotò. Arrivarono tedeschi, carabinieri, polizia da Treviso, si sparse la voce che sarebbe stata vendicata la morte di questi innocenti.
Ma lo zio Luigi scrisse subito una lettera molto severa al Comando Federale con queste precise parole che noi tutti sottoscrivemmo:
"non una goccia di sangue deve essere sparsa per vendicare la morte dei miei fratelli".
Purtroppo anche lo zio Carlo era mancato dopo l’operazione per paralisi intestinale.
Alla direzione delle officine rimasero lo zio Luigi e mio fratello Cipriano. Bisognava provvedere lavoro per circa 400 persone e famiglie. I nostri familiari non si persero d’animo e continuarono a lavorare e assolvere agli impegni di lavoro e di sostegno a noi orfani (eravamo 6) e per le due vedove, mia madre e mia zia.
Poiché la mia salute continuava ad essere molto scarsa, mia madre dopo qualche soggiorno in montagna, mi incitò ad iscrivermi all’Accademia a Venezia. Ciò valse ad attutire il mio profondo dolore, e sapevo che mio Padre sarebbe stato contento che proseguivo gli studi magistrali con il disegno e la pittura. Ma lui non c’era più.
Egregio Direttore,
se ha potuto dedicare un po’ di tempo a questi miei dolorosi ricordi - creda che le sono vivamente grata.
Ho cercato di dimostrare, con quanto Le invio, che mio Padre ha sempre tenuto una condotta seria, onesta, lungimirante per il bene della mia famiglia e dei suoi operai.
L’ideologia dei tempi non l’ha portato al comando, ma all’assistenza alla conciliazione, al rapporto umano.
Ne fa fede la pergamena dei vecchi operai che spontaneamente lo hanno ricordato quarant’anni dopo la scomparsa:
"Alla memoria degli indimenticabili Guglielmo Menon
e il figlio Cipriano
esempi di genialità, laboriosità ed onestà"
Gli operai che nella loro officina hanno trovato per un lungo seguito di anni, valida scuola di lavoro e preziosa fonte di sostentamento, esprimono il loro ringraziamento a mezzo della gentile «paronsina» signora Angelina Menon. ecc.
Con l’augurio di buon lavoro, Le porgo i miei più vivi ringraziamenti.
Laura Menon
 
 
IL GAZZETTINO DI VENEZIA 10 Agosto 2004
 
SUO NONNO, A BUON DIRITTO, SI PUÒ RITENERE TRA I TRA I «PADRI FONDATORI» DEL NORDEST DEI MIRACOLI 
Francesco Jori
Trascritto dal cyberamanuense Marco Allasia
 
 
Treviso
Suo nonno, a buon diritto, si può ritenere tra i «padri fondatori» del Nordest dei miracoli, anche se all’epoca tirava tutt’altra aria. Ma proprio lì, in un contesto di miseria diffusa, di risorse pressoché inesistenti, e di emigrazione per disperazione, gente come Carlo Menon gettava le basi di un modello basato sul «fai da te», che coniugava inventiva e capacità manuali.
Carlo Menon, nonno di Laura Menon Grosso, era un trevigiano di Roncade classe 1858, con la passione della meccanica. Già a 12 anni andava a bottega, da un fabbro ferraio; e ad appena 17 si metteva in proprio, ideando un primo biciclo a legno, e costruendone nel 1887 assieme a Fausto Vianello un modello con ruote in legno cerchiate in ferro. Poi passò alle bici semplici e a quelle da corsa. Primo in Italia, realizzò biciclette con ruote di diametro uguale, che sostituivano quelle consegnateci da remote stampe e primitive foto, con il ruotone grande davanti e quello piccolo dietro: caratteristiche a vedersi, certo, ma ardue da manovrare, e soprattutto da salircisi sopra.
La sua bottega, ricorda la nipote Laura, che qualche anno fa ha curato una bella pubblicazione rievocativa, indicava già nella ragione sociale la poliedricità e la versatilità del titolare: «Artigiano, fabbro ferraio, armaiolo, costruttore di bicicli su commissione». Come dire, voi chiedete e noi facciamo. Ma era anche uno di quei tipi che non sanno star fermi, e che producono anche se nessuno chiede. Era l’epoca della sfida della carrozza senza cavalli, alias l’automobile; e Carlo Menon ci si tuffò con passione, dapprima lavorando su motori a vapore e a scoppio, e perfino partecipando alla costruzione di un aereo (un biplano in canne d’India e tubi d’acciaio con propulsione a pedali).
Il suo nome l’ha legato comunque all’automobile, tenendo testa a un colosso come la Fiat. Nel 1895 cominciò a lavorare a un prototipo con motore De Dion Bouton da due cavalli e mezzi, costruendolo interamente nella sua bottega, e dandogli il nome di «carrozza senza cavalli»: completamente da solo, affrontò e risolse via via i problemi legati all’accensione, al raffreddamento, al cambio, alla frizione, al differenziale; infine, dotò il modello di ruote in acciaio con raggi, dotato di pneumatici forniti dalla Pirelli. Il motore era a un cilindro, le sospensioni a molla. 
Fu un lavoraccio, davvero, che gli portò via oltre due anni. Nel 1897 il prototipo era pronto, e veniva ufficialmente presentato a Treviso, tra la curiosità e l’ammirazione generali. E tre anni dopo, la «carrozza senza cavalli» riusciva già a stupire, imponendosi all’attenzione perfino di piloti ed esperti di «grandi firme» automobilistiche come Fiat e Lancia. Accadde nel 1900, quando una vettura con motore interamente elaborato dallo stesso Menon, di 3 hp e mezzo, si distinse a Padova e a Brescia nelle gare di resistenza, su una distanza di 223 km, e di velocità, su una distanza di 10 km, quest’ultima coperta alla più che rispettabile media, per l’epoca, di 39 km orari. L’anno successivo, a Udine, il veicolo risultò primo nella prova di dirigibilità nella corsa, e con l’impiego di alcol al posto della benzina.
Purtroppo, la Grande Guerra, con le sue fasi drammatiche, le devastazioni, e gli strascichi lasciati per diversi anni, compromise il geniale lavoro di Carlo Menon: la "vetturetta" si presentava leggera, manovrabile, non impegnativa, di poco consumo. Avrebbe potuto rappresentare un’idea geniale, destinata ad affermarsi sul mercato: ma ci volevano investimenti, mezzi, disponibilità di cui la piccola bottega artigiana di Roncade non poteva disporre. Così il modello finì in un magazzino, da cui uscì solo una quindicina di anni dopo, quando Guglielmo Menon, direttore proprietario delle Officine, con il fratello Luigi, (subentrato a Carlo, morto nel 1924), la ricompose con tutti i meccanismi autentici. E in varie occasioni quel modello onorò raduni e corse, finché all’autodromo di Monza venne esaminato da esperti e conoscitori e scelto, unico in Italia, per partecipare alla corsa Londra-Brighton, di 90 km. Il nipote di Carlo, Cipriano, e il pilota conte Luigi Castelbarco ottennero un eccellente piazzamento, venendo festeggiati adeguatamente.
Tornata in Italia, la vettura partecipò a vari raduni, finché giunse a Roma Cinecittà, «ingaggiata» per il film «I due figli di Ringo», con Ciccio Ingrassia e Franco Franchi. Ma si fece vedere e ammirare anche in casa: a Roncade, tra i più importanti raduni e corse, aprì la Strada del Vino Rosso con le più belle auto d’epoca del tempo condotte dall’inventore e direttore del museo di Bassano Nino Balestra. I tecnici ed esperti conoscitori del modello, oltre ai proprietari Luigi e Cipriano Menon, furono il cavalier Antonio Pavan detto Tugoleti, e la stella del lavoro Giovanni Gobbin. Oggi la macchina è custodita dal pronipote di Carlo, Carlo Antonio, che con la moglie Irene Stucchi dirige a Roncade la nuova officina, da cui escono tra l’altro le valvole speciali per auto da corsa, Ferrari compresa.
Dei Menon di Roncade, pionieri del moderno Nordest, ha scritto tra l’altro Claudio Bin, presidente della Banca di credito cooperativo di Monastier e del Sile: «Appartengono alla schiera esigua dei precursori del fenomeno Nordest. Geniali, capaci di inventiva, lungimiranti come pochi, con la loro intuizione, la carrozza senza cavalli, hanno aperto la strada alla diffusa industrializzazione, al miracolo imprenditoriale che ha cambiato, per sempre, lo scenario della nostra terra».
 
 
IL GAZZETTINO DI VENEZIA 10 Agosto 2004

IL MARTIRIO DELLA FAMIGLIA UGAZIO
Augusto Pastore
 
 
     La tragedia della famiglia Ugazio vien voglia di scriverla con l'inchiostro rosso. Un rosso sangue. E ci vorrebbero anche le tonalità espressive di Eschilo per rendere con chiarezza l'atmosfera allucinante nella quale venne consumata una strage orribile che lascia increduli, inorriditi. Le malvagità della sporca bestia umana toccano vertici sconosciuti alla bestia stessa. certo che al cospetto del calvario di Mirka, Comelia e Giuseppe Ugazio la più maledetta iena proverebbe un moto di sgomento.
    Galliate è un grosso centro agricolo-industriale, posto ad una decina di chilometri da Novara. Si allunga a levante, fino alle rive del Ticino.
    In questo pezzo di valle padana l'inverno è rigido, umido: una cappa pesante di nebbia avvolge tutto. D'estate l'afa, stagnante e le zanzare fanno attendere il calare del sole come una benedizione del Padreterno. Allora la gente esce di casa e si siede sui gradini. Aspetta il ristoro di un filo d'aria.
    Anche la sera del 28 agosto 1944, dopo una giornata arroventata, a Galliate si aspettava il sollievo del tramonto.
    Giuseppe Ugazio, un brav'uomo di 43 anni, segretario del Fascio locale, si intratteneva con alcuni amici presso la trattoria S. Carlo. Discuteva della guerra, delle terrificanti incursioni sul ponte del Ticino spaccato in due dalle bornbe inglesi.
    Cornelia, la figlia di 21 anni, simpatica e bella studentessa in medicina, si era recata da conoscenti che l'avevano pregata per alcune iniezioni.
    Mirka, l'ultima creatura di Giuseppe Ugazio, era saltata sulla bicicletta e si divertiva a pedalare forte con la gioia innocente dei 13 anni!
    Ma in quella sera del 28 agosto 1944, il destino di Mirka, Cornelia e Giuseppe Ugazio si compie. Una accolita di uomini, usciti dalla boscaglia, come lupi famelici attendono i tre.
    Con un pretesto qualsiasi distolgono Giuseppe Ugazio dalla compagnia degli amici, poi, camuffati da militi della R.S.I. in borghese, fermano Cornelia. Mirka, la dolce bambina di 13 anni con le trecce avvolte sulla nuca e il vestitino bianco a fioroni rosa, viene spinta dalla camionetta in corsa sul bordo della strada. La raccolgono in fretta, senza dare nell'occhio, accorti come una banda di bucanieri. Una sporca e nodosa mano le comprime la bocca mentre l'automezzo si rimette in marcia. Il tragico appuntamento per le tre vittime è fissato presso la tenuta «Negrina», un cascinale isolato a mezza strada tra Galliate e Novara. Sono le 21 della sera del 28 agosto 1944, un cielo calmo, dolce, pieno di stelle. Dalle risaie si alza il concerto gracidante delle rane: alla tenuta «Negrina» incomincia invece la sarabanda, la macabra giostra. I partigiani, una ventina circa, hanno tanta fame e sete, ma per fortuna il pollaio è portata di mano e la cantina a due passi. Un festino in piena regola per tutti quanti ad eccezione dei tre prigionieri. Mirka piange ed invoca la madre. Cornelia, dignitosa come la donna di Roma, sfida con gli occhi quel banchetto di forsennati. Papà Ugazio è cereo in viso: avverte la tragedia immane che pesa nell'aria. Avanti, è ora. Il vino ha raggiunto l'effetto e a calci e a pugni la turba di delinquenti spinge Giuseppe Ugazio nel boschetto adiacente la tenuta. Lo legano ad un fusto, gli spengono i mozziconi di sigarette sulle carni e, sotto gli occhi terrorizzati di Mirka e di Cornelia, lo finiscono a pugni in faccia e pedate nel basso ventre. Il calvario dura più del previsto perché la fibra fisica dell'Ugazio resiste. La gragnuola di pugni infittisce, i calci si fanno più decisi. Ora si ode soltanto il rantolo: «Ciao Mirka, ciao Cornelia» e Giuseppe Ugazio spira.
    Adesso inizia l'ignobile. Sono venti uomini avvinazzati su due corpi indifesi. Mirka è una bambina e non conosce ancora le brutture degli uomini degeneri. Dapprima non comprende, non sa, poi tenta un'inutile resistenza. Cornelia si difende ma è sopraffatta. Sette ore di violenze ancestrali, sette ore di schifo e di urla. Poi l'alba. Mirka e Cornelia non respirano più. Conviene togliere di mezzo i cadaveri e ritornare nella boscaglia. Si scavano venti centimetri di terra e si buttano le vittime. Le zolle fredde al contatto delle carni riaccendono un barlume di vita e i due corpi sussultano ancora. Ma è questione di un momento per i partigiani: a Cornelia spaccano il cranio con il calcio del mitra e sul collo di Mirka, la bambina, si abbatte uno scarpone che la strozza. La tragedia è finita. All'orizzonte si alza il sole, il sole insanguinato del 29 agosto 1944.
    Sull'orizzonte si alza il sole, il sole insanguinato del 29 agosto 1944, a soli otto mesi dalla totale liberazione.
    A mamma Maria Ugazio abbiamo chiesto di farci vedere un ricordo personale di Mirka. Ci ha mostrato un album di famiglia un poco ingiallito dal tempo. Sul retro di una foto scattata nei giardini dell'Isola Bella la mano infantile di Mirka aveva scritto nel 1943 queste parole: «Al mio papalone che mi ha portato a fare questa bella gita, la sua Mirka».
 
 
L'ULTIMA CROCIATA N. 7 Novembre 1998 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI) 

ERA INCINTA, LA GRAZIARONO...POI LA UCCISERO UGUALMENTE
Francesco Jori
  
 
     “La donna gettata nel Bus de la Lum non è un'invenzione. C'è: è mia madre”. Dopo quarantacinque anni di silenzio Gian Aldo De Pieri, figlio di Nella, fucilata dai partigiani sul Cansiglio, ha deciso di uscire allo scoperto per raccontare la sua verità. Quella di cui è stato testimone diretto in quella mattina del settembre-'44 quando, a sei anni di età, si vide portar via la madre sotto gli occhi.
    Gian Aldo De Pieri ha scelto di parlare, e di mostrare tutte le carte che ha raccolto, dopo aver letto la smentita dei partigiani a proposito dei cadaveri gettati nel Bus de la Lum, e la controversione da loro fornita. “Una serie di falsità e di inesattezze”, contesta. E replica: “La presero per vendicarsi di mio padre, volontario della Guardia nazionale repubblicana. L'accusarono di essere una spia, era innocente. Un loro medico chiese loro di non ucciderla, perchè era incinta. In un primo tempo le concessero la grazia, poi la fucilarono ugualmente. E infine la gettarono nel Bus de la Lum: lo dice lo stesso certificato di morte». Nella De Pieri aveva 36 anni quando venne uccisa. Era sposata con Lino, ricevitore del dazio a Ponte nelle Alpi. Dal matrimonio erano nati due figli: Gian Aldo e Gabriella. Nel settembre del '44, Lino militava nella Guardia nazionale repubblicana. A Ponte era rimasta Nella con i bambini. Una mattina, mentre stava andando in bicicletta a Soccher con Gian Aldo per comprargli un maglione, venne fermata da alcuni partigiani, che la condussero dapprima in un albergo, e poi con una moto su in Cansiglio. Il bimbo venne affidato a un uomo del posto, Olindo Pierobon.
    La donna fu accusata di essere una spia. Racconta oggi suo figlio: “La denuncia partì da qualcuno che voleva compiere una vendetta. Alcuni partigiani hanno poi ammesso che era innocente. Altri hanno sostenuto che era andato bruciato tutto. Nessuno ha mai potuto dimostrare quelle accuse. Per giunta, dopo il processo l’avevano graziata, perchè aveva due bambini piccoli e perchè era incinta. Ma proprio mentre la stavano mandando a casa, arrivò un altro partigiano che insistette per l'esecuzione”.
    A conferma della sua tesi porta molti documenti raccolti nei mesi successivi da una sua zia, Ilde Fasolato De Pieri, sorella del marito di Nella. Dice uno di questi, riferendosi appunto al processo: “Il medico che avevano con loro si alzò, e disse che stessero bene attenti prima di commettere un delitto, perchè era in stato interessante”. Sul fatto della grazia, poi revocata, c'è anche la testimonianza di Decimo Granzotto, sindaco di Belluno dopo la Liberazione, al quale la cognata di Nella si era rivolta per avere notizie: “Granzotto mi disse che nei giorni che mia cognata si trovava in Cansiglio, lui era già venuto via, che però seppe dal dottore che essa era con la Divisione Nannetti, che da questa venne condannata a morte, ma che poi fu graziata perchè madre di due bimbi piccoli”.
    Fucilata il 9 settembre '44 da partigiani della brigata “Tollot” su in Cansiglio, Nella De Pieri non morì subito: fu necessario darle il colpo di grazia, secondo la testimonianza resa al parroco di Cadola (la parrocchia della donna) da Luigi Boito, un partigiano di Ponte nelle Alpi. E dopo? Dopo, hanno detto i partigiani nella recente conferenza stampa tenuta a Vittorio Veneto, fu sepolta in un cimitero della zona. Contro questa versione c'è il certificato di morte redatto dal parroco, don Giacomo Viezzer, custodito nell'archivio parrocchiale di Santa Maria di Cadola al numero 50 bis. Dice il testo: “Anno 1944 del mese di settembre. Dal Bò Marianna di Giovanni e di Troncon Rosa, da Ponte nelle Alpi, di anni 36, coniuge De Pieri Lino, casalinga, uccisa dai partigiani il giorno 9 corrente mese al Pian Cansiglio ed ivi sepolta presso il burrone detto Bus de la Lum. Comunicazione avuta da partigiani del Cansiglio testimoni al processo».
    I due figli della donna intanto erano stati affidati alle suore di Casa del Sole, un istituto di Ponte nelle Alpi. Il marito Lino, qualche settimana dopo, venne intercettato col suo battaglione in Val Camonica dai partigiani e fu ferito nello scontro a fuoco. Riuscito a trascinarsi fino a un ospedale della provincia di Brescia, mori pochi giorni dopo: era il 9 novembre 1944, due mesi esatti dopo la fucilazione della moglie. Quasi mezzo secolo dopo, di quella storia si continua a parlare. E su quella storia si continua a cercare una verità che resta ancora divisa.
 
 
IL GAZZETTINO Quotidiano del 18 Marzo 1989.

DOPPIO DELITTO 1944 Tre partigiani indagati dalla Procura di Bologna
Roberto Canditi
 
 
    Il procuratore capo Ennio Fortuna ha formalmente chiesto al giudice per le indagini preliminari l'autorizzazione a procedere per concorso in omicidio volontario contro tre partigiani che, secondo le indagini dei carabinieri, hanno trucidato la sera del 22 luglio '44 Alfredo Prospero Monfredini e il genero Vittorio Barion che, all'epoca, abitava a Vergato sull'Appennino bolognese.  Il passaggio della pratica dal gip è stato necessario perché, nel '46, la sezione istruttoria della Corte d'Appello aveva archiviato il caso «visto che i responsabili erano rimasti ignoti».
    Il manipolo di partigiani della «Stella Rossa», così dice l'accusa, era formato da cinque persone ma solo tre sono ancora in vita. I carabinieri del nucleo di polizia giudiziaria hanno già interrogato tre testimoni: due sacerdoti che da mezzo secolo custodiscono il segreto di quelle morti e Luigi Barion, figlio e nipote delle due vittime.  Il nonno venne massacrato a colpi di zappa mentre il padre fu ucciso con un colpo alla nuca. I corpi vennero abbandonati nel vicino bosco di Grizzana e i familiari sopravvissuti riuscirono a recuperare ciò che restava dei cadaveri solo un anno dopo, pagando cento lire dell'epoca a chi conosceva i segreti del duplice omicidio.  Accanto ai due corpi venne trovato quello di Evandro Masotti, un altro civile fatto sparire dai partigiani in quei giorni.
    La Procura di Bologna ha inoltre aperto un'indagine conoscitiva su tutti i civili della provincia di Bologna, passati per le armi dopo il 21 aprile del '45, cioè a Liberazione avvenuta. I carabinieri hanno già individuato i nomi di mille vittime trucidati nei mesi successivi alla fine della guerra. Regolamenti di conti che, nella maggior parte dei casi, nulla avevano a che fare con la lotta fra partigiani e fascisti.
    Su questo oscuro periodo storico gravano due amnistie: quella voluta da Togliatti nel '46 per cancellare con un colpo di spugna tutti gli episodi difficilmente riconducibili alla guerra civile e agli anni dell'occupazione, e quella del '59 che ha ulteriormente allargato l'ombrello della «sanatoria».  In decine di occasioni chi aveva fatto fuoco su civili inermi se n'era tornato a casa libero da impegni con la giustizia: era bastato dichiarare che i delitti erano di matrice politica.
    Ma per i due uomini uccisi a Vergato non sarà facile sostenere, anche se sono passati 52 anni, che tutto avvenne nel convulso ambito della lotta partigiana.  Uno dei testimoni racconta infatti che il commando della «Stella Rossa», sei giorni prima della notte dell'eccidio, si era presentato spianando le armi per chiedere soldi e viveri: per essere certi di avere il denaro portarono via un ostaggio che fu rilasciato, ma che fu poi ripreso assieme al suocero per andare a morire nel bosco dell'Appennino.
 
 
IL RESTO DEL CARLINO Quotidiano del 24 11 1996

NEGATO L'OSSEQUIO A DUE VITTIME INNOCENTI  A Galliate (Novara) non è stato possibile citare su una targa dedicata alle vittime del conflitto il nome di due ragazze, Mirka e Cornelia, violentate e massacrate durante la guerra civile.
Paolo Pisanò
 
 
    Nonostante le buone intenzioni del presidente della Camera Luciano Violante, che auspica l'edificazione di una "memoria storica comune" dove tutte le vittime della guerra civile vengano ricordate, in quanto tali, con uguale dignità, le sorelle Mirka e Cornelia Ugazio di Galliate (Novara), morte 54 anni or sono quando avevano rispettivamente 15 e 23 anni perché figlie del segretario del Fascio locale, sono risultate, a uno dei primi appelli in proposito, "meno uguali" delle altre e perciò subito private della dignità del pubblico ricordo.
    E accaduto nel piccolo centro novarese (15.000 abitanti) allorché, per iniziativa dell'Associazione nazionale famiglie caduti e dispersi in guerra (apolitica), era stato deciso, in accordo con l'amministrazione comunale di centro-sinistra retta dall'architetto Nadia Melli, di collocare nel cimitero dei paese un leggio in bronzo con incisi, senza esclusioni, i nomi dei civili galliatesi deceduti per cause di guerra durante il secondo conflitto mondiale.
 
"LA CONOSCEVO BENE"
    Tutti d'accordo, sembrava cosa fatta al punto che i promotori dell'iniziativa avevano chiesto ad Adriano Crespi, consigliere comunale di Alleanza Nazionale, l'elenco dei caduti "fascisti" da includere nel bronzo della memoria comune. Il consigliere Crespi aveva assolto il suo compito presentando l'elenco con i nomi degli uccisi in quanto "fascisti o presunti tali" fra il 1944 e il 1945 compresi, ovviamente, quelli di Mirka, Cornelia e del loro padre, Giuseppe Ugazio. Ma all'apparire di quei tre nomi la "memoria comune" ha avuto un deragliamento imprevisto e tutto si è arenato. Il sindaco ha scritto ai promotori comunicando laconicamente: "Il parere positivo dell'Amministrazione sarà comunque subordinato all'unanime accoglimento della proposta da parte di tutte le Associazioni rappresentanti i caduti in guerra".
    Fine della corsa: nel cimitero di Galliate è stato posto un vaso di bronzo con una dedica generica a dei Caduti senza nome. Così Mirka e Cornelia, che stavano per affiorare se non alla dignità della giustizia, almeno alla pietà della "memoria comune", sono sprofondate di nuovo nell'oblio. Ma perché? Chi erano le due sorelle Ugazio per suscitare ancora tanto imbarazzo alla sola vista dei loro nomi? A Galliate non si parla volentieri di loro: secondo la versione resistenziale, fatta circolare dopo la guerra, esse furono "giustiziate" in quanto "fasciste che partecipavano attivamente ai rastrellamenti dei partigiani". Per il resto silenzio e obbligo d'indifferenza. Qualcosa di più su di loro, però, l'apprendiamo dalla dottoressa M.C. di Milano che, saputo dell'iniziativa (poi naufragata) di pacificazione, aveva scritto ai promotori: "Sono una compagna di università di Cornelia Ugazio, la studentessa di medicina assassinata a Galliate nell'agosto 1944... la notizia mi ha procurato una profonda commozione, ma anche una grande gioia perché ho visto finalmente riabilitate Cornelia e Mirka e riconosciuta la loro innocenza... L'improvvisa soppressione di lei, della sorellina e del papà mi ha avvicinata alla loro mamma rimasta brutalmente sola e sopravvissuta (ora ha 100 anni) a tanto dolore. Dolore inumano affrontato con grande dignità nella infinita ignominia... Ho conosciuto bene Cornelia e le sue numerose e non comuni doti di mente e di cuore. Si preparava molto seriamente alla professione di medico e avrebbe fatto di sicuro un gran bene a Galliate. Non meritava certamente una simile fine e nemmeno l'oblio e il disonore che durano da ben 54 anni".
    Sulla fine delle sorelle Ugazio esiste inoltre, presso il Tribunale di Novara, uno scarno fascicolo processuale aperto nel luglio 1945 e chiuso il 31 ottobre successivo con una sentenza di "non luogo a procedere per essere ignoti gli autori del reato".
 
"C'E TROPPA OMERTÀ"
    Fra le carte, il verbale di ritrovamento dei corpi in data 13 luglio 1945, il referto dell'ufficiale sanitario comunale che non rileva sugli stessi ferite da arma da fuoco o da taglio e attribuisce la morte a colpi inferti con un corpo contundente, e, aggiunta agli atti 11 anni dopo in seguito a un nuovo esposto dei parenti, la deposizione della madre, Maria Robecchi, che il 18 marzo 1956 dichiara:
    "Il 28 agosto del '44 vennero prelevati da partigiani mio marito e le mie due figlie. I cadaveri delle mie due figlie furono rinvenuti in località Negrina fra Galliate e Pernate mentre il cadavere di mio marito non è stato mai ritrovato. Il cadavere di mio marito dovrebbe trovarsi a circa 15 chilometri di distanza da dove furono rinvenuti i cadaveri delle figlie. Ma finora non c'è stato nessun ritrovamento, tanto che è stata fatta la dichiarazione di morte presunta. Una certa Varallo Susanna mi riferì che il cadavere di mio marito dovrebbe trovarsi nella fognatura della zona di Negrina. Circa tre anni or sono feci degli scavi anche sotto una pianta ma senza esito".
 
"COME MARIA GORETTI"
    C'è, inoltre, in data 28 marzo 1956, un rapporto del maresciallo comandante la stazione carabinieri di Galliate il quale conferma come gli scavi eseguiti dai familiari nel 1953 e nel 1956 non hanno dato esito, che Varalli Susanna ha dichiarato ai militi di non sapere nulla, e conclude: "Vi è in proposito troppa omertà e anche coloro che forse sanno qualcosa si mantengono segreti per cui non sono stati raccolti elementi positivi".
    Vi è, infine, sempre fra le carte aggiunte al fascicolo nel 1956, un elenco di testimonianze raccolte dal magistrato, tra le quali quella dell'ex partigiano comunista di Galliate Giuseppe Pollastro (nome di battaglia "Ciùcch"), di professione fornaio, già appartenente alla la Divisione d'Assalto "Garibaldi", 82a Brigata e comandante di una squadra gappista dislocata proprio nella zona di Galliate. Giuseppe Pollastro ("Ciùcch") dichiara di non sapere niente perché all'epoca si trovava altrove.
    Ma sulla fine delle sorelle Ugazio ci fornisce notizie anche una lettera (rimasta senza risposta) indirizzata al sindaco di Galliate, dopo il fallimento dell'iniziativa di pacificazione, da Edoardo Spagnolini, un ex partigiano non comunista. E stata scritta il 24 agosto 1997 su carta intestata dell'Associazione volontari della libertà dei Piemonte e vi si legge, tra l'altro: "Sono uno dei soci fondatori della sezione di Borgomanero... Il caso delle sorelle Ugazio mi ha sempre colpito e appassionato. E' vero che esse non appartenevano a nessun corpo armato della RSI, che erano solo figlie di un fascista... Su questo punto, per favore, siamo chiari, riconosciamo le nostre colpe e diciamo pure, anche se spiace, a me per primo, che sono state prese ed assassinate dopo il loro padre da PARTIGIANI! Lo sanno anche i sassi di Galliate... Cari Galliatesi, sapete cosa significa morire a 15 e 23 anni? Cosa significa essere violentate e stuprate per 7 ore fino al limite della resistenza fisica? Cristianamente parlando, qual è la differenza fra Maria Goretti, salita alla gloria degli altari, e queste due ragazze? Le sorelle Ugazio subirono il martirio sopraffatte dalla forza di una ventina di uomini, gettate poi in una fossa ancora con un filo di vita e un debolissimo respiro tanto che per colpo di grazia a Cornelia spaccarono il cranio con il calcio del mitra e a Mirka schiacciarono il collo con uno scarpone per soffocarla. Chi ha patito di più, la Goretti o le sorelle Ugazio?".
    La rivelazione di Edoardo Spagnolini chiarisce il perché non furono trovate sui corpi delle due sorelle ferite d'arma da fuoco o da taglio, ma non dice chi furono i responsabili del delitto. Su questo punto, però, ci illumina un ricercatore storico della resistenza novarese, Cesare Bermani, il quale nel 1979 e nel 1984 si è occupato, tra l'altro, del già citato Giuseppe Pollastri e delle sue imprese di terrorista e uccisore iperattivo di fascisti, prelevati sia nei dintorni di Novara sia alla periferia della città travestendosi, con i suoi gappisti, da militare della RSI.
    Preciso e documentato, il Bermani ricostruisce dapprima ("Annali di ricerca contemporanea" - Istituto storico della Resistenza in provincia di Novara - 1 - 1979) il "processo partigiano" subito da "Ciùcch" nel dicembre 1944 per aver provocato, tra le tante, anche la morte di Attilia Zeno, moglie del dottor Luigi Ubezio ("Bigìn"), medico ed esponente della resistenza novarese.
 
"VOGLIO VENDETTA"
    Il 12 novembre 1944 la squadra di "Ciùcch" è in agguato sull'autostrada Milano-Torino all'altezza del ponte di San Pietro Mosezzo; sopraggiunge l'automobile del dottor Ubezio il quale, sapendo della dislocazione dei partigiani, li avverte con una serie di segnali concordati. Nonostante ciò i gappisti aprono il fuoco sull'automobile e uccidono sul colpo la moglie del medico. Scrive testualmente Bermani: "Il dottore scende, fuori di sé: "Disgrasià! Sun al Bigin! (Disgraziati! Sono Bigìn!, ndr) Vigliacchi, aiutatemi!". A quel punto i partigiani prendono coscienza di quanto è avvenuto e - comprensibilmente impauriti - perdono la testa e si mettono a scappare. O forse - più semplicemente - nessuno si è avvicinato per la paura che nella macchina ci fossero dei fascisti che potevano sparare". Ubezio denuncia subito "Ciùcch" al comando partigiano. 
    "Carissimo 'Cirò' - scrive al superiore di "Ciùcch" - aspetto una vendicazione senza pietà di quei dieci miserabili del "Ciùcch", lui compreso. Di vili simili il genere umano non sa che farne. Desidero una fotografia della loro esecuzione". L'esecuzione non ci sarà, ma il "processo partigiano" sì, il dottor Ubezio è un esponente della resistenza novarese troppo noto perché il gappista se la cavi con un "non luogo a procedere". Anche se cerca di defilarsi rispondendo alle domande del "commissario politico" più o meno come risponderà nel 1956 al magistrato di Novara che gli chiede delle sorelle Ugazio: "Non sono affatto a conoscenza della questione di cui sono accusato. Faccio presente che nei giorni in cui è avvenuta, mi trovavo in un'altra zona . Ma il "tribunale partigiano" sa che mente e, per placare il dottor Ubezio, procede in modo curiosamente simbolico: "15 dicembre 1944: il tribunale... dichiara il Ciùcch responsabile del reato di omicidio colposo e lo condanna a cinque anni di reclusione da scontarsi al termine della guerra; delibera che il Comando della 82a Brigata "Osella" lo trattenga presso la Formazione armata per impiegarlo nelle più rischiose azioni di guerra in considerazione dei suoi meriti militari....". 
    Inutile sottolineare che, finita la guerra, il gappista "Ciùcch", eroe della resistenza, avrà al suo attivo tali e tanti "meriti militari" da non dover scontare nemmeno un giorno dei cinque anni inflittigli simbolicamente dal "tribunale partigiano".
 
MEMORIA SVANITA
    Ma è proprio ricostruendo le vicende della Resistenza novarese, comprese le gesta "militari" di Giuseppe Pollastro, detto "Ciùcch", e dei suoi gappisti, che Cesare Bermani, cinque anni più tardi, rivela un fatto nuovo: "Queste squadre di pianura a mano a mano che si ingrossano vengono poi di nuovo frazionate in piccoli gruppi. Seguiamo, sempre a scopo esemplificativo, le vicende di questa squadra dell'Osella. I partigiani 'Fontana', 'Ciùcch' e 'Cinto' catturano ed eliminano il fondatore del Fascio repubblicano e le due figlie (il corsivo è nostro, ndr), anch'esse attiviste fasciste, e il 7 ottobre cercano di bloccare sulla Barengo-Momo due della GNR in bicicletta, che tentano di reagire e vengono uccisi...".
    Proprio così, nero su bianco, in "Quarantesimo della Resistenza 1944-1984", su "Provincia 80" periodico dell'Amministrazione provinciale di Novara - anno 3, numero 2, pagina 37.
    Domanda numero uno: il sequestro, lo stupro e l'uccisione di due ragazze è un reato cosiddetto "minore", di quelli che cadono subito in prescrizione e chi si è visto si è visto? Se è vero il contrario, c'è qualcuno che ha il potere e il dovere di riaprire il caso e far luce su ciò che non sembra essere stato ancora ben chiarito?
    Domanda numero due: perché la "memoria comune" di Galliate è svanita davanti ai nomi di Mirka e Cornelia? 
    Risposta: perché appena si è sparsa la notizia dell'iniziativa di pacificazione qualcuno si è recato in municipio e ha fatto presente l'inopportunità della cosa. E sapete chi era costui? Giuseppe Pollastro, detto "Ciùcch". Sì, proprio lui, vivo e vegeto, eroe della resistenza, gappista in pensione ma non domo: è andato dritto dritto dal sindaco e ha detto grosso modo: "La lapide, con quei nomi, non s'ha da fare". E la lapide non è stata fatta.
 
 
UOMO QUALUNQUE, Numero 2, 21 Gennaio 1998 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI) 

QUELL’ESTATE DEL 1944 A SAURIS
Lao Monutti 
 
    Tratto dal libro"Uomini, fatti e misfattidel nord-est", pubblichiamo un brano sulle drammatiche vicende avvenute nell’ampezzano nei giorni della guerra civile.
    Il camion, partito da Ampezzo, è armato con una mitragliatrice. Sul cassone ci sono una decina di partigiani, uomini e donne, che cantano e ridono con l’accompagnamento d’una fisarmonica. Il mezzo si ferma all’inizio di Sauris di Sotto. Nella borgata si sta festeggiando S. Osvaldo, il patrono. Alcuni partigiani si piazzano a sorvegliare le vie d’accesso, altri entrano in paese. E’ in corso la Messa. Tra i presenti all’uffizio religioso, i nuovi arrivati individuano il 59enne Emilio Polentarutti, sua figlia Elvira di 32 anni con l’undicenne nipote Ofelia e il 37enne Mario Callegher. All’uscita i quattro sono bloccati e tenuti sotto minaccia delle armi in uno piccolo spiazzo accanto alla stradina che dal fianco della chiesa porta al centro dell’abitato.
    Un ragazzo, che sta percorrendo di corsa la discesa per andare ad assistere alla festa in piazza sente il Callegher gridargli: "Avvisa Alfredo! "Il ragazzo si ferma. Voltatosi nota la scena dei tre adulti e della bambina sotto la minaccia dei mitra di due partigiani. Fa per tornare indietro. Mario urla: "scappa o ti ammazzano!". Il ragazzo riprende rapido la corsa in discesa. Da dietro gli sparano. Il colpo passa sfiorandolo… Trafelato, il ragazzo giunge a casa Polentarutti. Qui assieme a Giuseppe Menigher avverte il 23enne Alfredo Polentarutti di quel che sta succedendo ai suoi familiari e di fuggire. Alfredo, invece di scappare, si dirige verso il luogo dove i suoi cari sono tenuti sorvegliati. Finisce catturato a sua volta. I tre uomini, la donna e la bambina sono condotti presso la locanda "Alla Pace". La bimba viene fatta rimanere al piano terra. Gli adulti, condotti al piano superiore, subiscono un lungo interrogatorio-accusa. Benché non ci fossero elementi di alcun tipo d’azione disonesta o condannabile compiuta da parte dei Polentarutti e del Callegher nei confronti dei paesani, era nota la fede fascista della famiglia, nonché il buon rapporto avuto con i tedeschi del locale presidio. Ad Alfredo ed al figlio Ersilio Polentarutti, si faceva l’addebito d’aver accompagnato militari tedeschi lungo la strada in uscita da Sauris e, come chiacchere incontrollate del paese, cui non erano disgiunti rancori personali, ad Elvira di mantenere una relazione con un ufficiale tedesco del presidio.
    Callegher, messo-scrivano al Comune aveva ricoperto la carica di segretario politico del Partito Nazionale Fascista. Si sentiva nel mirino, tanto che il 4 giugno 1944 aveva rassegnato le dimissioni da messo-scrivano scrivendo: "...la mia famiglia ha diritto di pretendere di poter vivere in pace e questa pace non gliela potrò far avere fin tanto che non sarò libero da ogni impegno che possa in qualche modo obbligarmi ad avere relazioni amministrative col pubblico. C’è infine di mezzo la mia incolumità personale, ed io sono certo di avere la coscienza a posto di fronte a tutto e tutti, voglio evitare, almeno fin tanto che mi sarà possibile, che le cose possano complicarsi…"
    La presenza partigiana che già dall’inverno ‘44, partendo dall’ampezzano cominciò a diramarsi verso tutta la Carnia occidentale e a nord verso il confine del III Reich provocò misure militari di contenimento da parte tedesca. A seguito della incursione d’una ventina di partigiani il 19 aprile ‘44 nei locali del Municipio di Sauris, Casa del Fascio, Latteria Sociale e Cooperativa di Consumo, che fruttò loro rispettivamente, come da denuncia vergata il 21 aprile ‘44 da parte del podestà Francesco Plozzer al Prefetto: schede del censimento bestiame, liste di leva, carte annonarie, materiale di cancelleria, gagliardetti del Fascio, mestolame della refezione scolastica e - pagando - 29 kg di burro congiuntamente a 37 kg di grassi e carne di maiale destinati all’ammasso, unitamente al sequestro di Ersilo e Alfredo Polentarutti - portati in montagna furono poi rilasciati verso le 16 del giorno 20 aprile - determinò lo stabilirsi in Sauris d’un presidio nella Casa del Fascio con ufficiali e sottufficiali tedeschi ed austriaci e truppa anche mongola. Con elementi locali, una manciata di giovani del paese, vestiti ed armati dalla Whermacht, fu costituito un presidio anche a Sauris di Sopra con base nella scuola elementare. Il collaborazionismo determinò le ire dei partigiani che minacciarono rappresaglie sul paese. S’imponeva una via d’uscita. La soluzione fu machiavellica: a prò comando tedesco di Sauris di Sotto, il 19 luglio i paesani d’accordo con i partigiani, organizzarono un furioso finto attacco "partigiano" contro il presidio dei "locali" di Sauris di Sopra. La sparatoria diede modo a quei giovani di volatilizzarsi nei boschi con armi e munizioni - consegnate ai partigiani - come fossero stati prelevati dagli attaccanti.
    Il timore della giustizia partigiana era reale: proprio quel 19 luglio sulla strada Ampezzo-Sauris fu ammazzato Umberto Polentarutti, di 71 anni. Umberto, di professione muratore, di nessuna parentela con la famiglia dell’omonimo Emilio, aveva vissuto a lungo in Germania, dove aveva lasciato una figlia sposata, ed era ritornato al paese guadagnandosi la vita lavorando il marmo. Quel giorno era partito, zaino in spalla, per Ampezzo. Si dice che in tasca avrebbe avuto una lettera della figlia, una normale missiva d’una figlia ad un padre, ma scritta in tedesco. Fermato sulla strada fu perquisito. Gli fu trovata la lettera. Sembra che nessuno dei sequestratori sapesse decifrare il tedesco. La missiva, nella foga di quel che stava succedendo in zona, fu ritenuta elemento d’accusa sufficiente. Umberto fu costretto a scavarsi la fossa, poi fu ucciso dentro… I tedeschi, dopo "l’attacco partigiano" di Sauris di Sopra, sentendosi in pericolo, chiesero rinforzi nella bassa. Una loro colonna di 200 uomini salì verso Sauris dalla gola del Tumiei. Presi sottotiro proprio nel critico passaggio della gola, risposero sparando a tutto ciò che si muoveva. A Latteis ferirono due sorelle di 11 e 14 anni, Maria-Lucia e Antonia Colle, che stavano lavorando su una loro proprietà proprio sopra la strada del Bus dove avvenne lo scontro. Per le gravi ferite decederanno all’Ospedale Civile di Tolmezzo la prima il 21 luglio e l’altra il 22 dello stesso mese. Giunti in Sauris, imbestialiti, i tedeschi minacciarono di distruggere il paese. La popolazione fu presa dal panico. Ci fu chi portò via in tutta fretta gli animali dalle stalle, chi cercò di salvare il salvabile buttando dalle finestre sui prati le masserizie di casa, chi si diede semplicemente alla fuga. Ma i tedeschi, sentendosi accerchiati, il 21 luglio decisero per una ritirata verso il Cadore, via Casera Razzo, portandosi dietro anche il loro presidio di Sauris di Sotto, ostaggi e Ersilio Polentarutti.
    Sono oramai passate le 13 allorquando i cinque condannati vengono trascinati dalla locanda "Alla Pace" al porcile di Sauris di Sotto destinato a luogo della esecuzione. Mario Callegher protesta. Chiede agli esecutori di risparmiar loro almeno quell’umiliazione. Li prega d’usare una stanza della Casa del Fascio. Le chiavi dell’edificio sono a casa dello stesso Callegher. Senza tentar la fuga, Callegher va a casa. Trova la moglie. La saluta tranquillamente raccomandandole d’aver cura dei loro due bambini. I cinque sono portati alla Casa del Fascio. All’ultimo momento un partigiano strappa la bambina Ofelia dal grembo della madre. Protestando che sarebbe una crudeltà inutile uccidere anche la piccola, la porta via... Quattro sono gli incaricati dell’esecuzione. Messi al muro i condannati sono falciati con i mitra. Poi, con la pistola, un colpo di grazia a ciascuno. Con accanimento viene infierito sui corpi di Elvira e Alfredo crivellandoli di colpi... Gli esecutori fuggendo per i campi, raggiungono i loro compagni al camion in periferia. Tra canti, musica e grida se ne vanno… Chi si avventura per primo nella stanza dell’esecuzione trova i corpi di Elvira e di Emilio abbracciati; gli altri due al loro fianco. Callegher, ancora rantolante, muore di lì a poco. Giunge il parroco. Alle salme somministra una affrettata benedizione... C’è chi lo accusa, ritenendolo in grado di far qualcosa, di non essere intervenuto... Il sangue che ha impregnato l’assito del pavimento lascia una macchia indelebile. Non sparirà mai finché negli anni ‘70 l’edificio sarà demolito e costruito nella forma attuale.
 
 
STORIA DEL SECOLO XX N. 45 Febbraio 1999  (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

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